Nel mondo, c’è un solo precedente, che risale al 2005 ed ebbe luogo a Los Angeles: oggi come allora, il curatore è l’inglese Christopher Frayling, autore tra l’altro dell’unica vera biografia dedicata a Leone, Danzando con la morte. Frayling ha insegnato Storia a Bath e al Royal College of Arts di Londra, dal 2001 si fregia del titolo di Sir e dal 1967 combatte la battaglia in favore del regista italiano. «La mostra di Torino – dice – nasce per celebrare i 50 anni dall’uscita del primo western di Leone, e cioè Per un pugno di dollari. In Italia arrivò in sala nel settembre 1964, mentre in Gran Bretagna lo vedemmo tre anni dopo, quando furono risolte le questioni di diritti d’autore con Akira Kurosawa, che con il suo Yojimbo aveva “ispirato” il film. Avevo letto un po’ di recensioni, tutte abbastanza negative, e seduto in quel cinema a Londra mi chiedevo che razza di film avessero visto quei critici. Era l’epoca in cui con un biglietto si poteva rimanere dentro il cinema anche tutto il giorno: io rimasi seduto al mio posto per due proiezioni consecutive. Che stile, che musica, che costumi! E quelle location polverose che poi scoprii essere spagnole e non americane, Clint Eastwood, che conoscevo come attore tv, qui completamente ridisegnato… Fu per me un’esperienza visiva straordinaria e l’avvio di una crociata, che in fondo non si è ancora conclusa, per dimostrare al mondo che grande artista fosse Leone». Oggi, cinquant’anni dopo Per un pugno di dollari, trent’anni dopo C’era una volta in America, venticinque anni dopo la morte di Sergio Leone, la questione è ancora aperta. Troppo fuori dagli schemi, troppo dentro il cinema di genere (uno, in particolare, il western, che insieme reinventò e affossò, esaurendone le possibilità narrative), troppo internazionale per l’Italia e troppo italiano per critici e produttori americani (ma non per il pubblico, che lo amò fin da subito, e per i registi, da Scorsese a Tarantino, che lo venerano come un maestro), troppo poco «politico» per un Paese superficiale e diviso, avviato a vivere anni di piombo. È per questo – chiediamo a Frayling – che solo ora sembra arrivato il momento di Leone? «Intanto – spiega lui – è importante il titolo della mostra, C’era una volta in Italia, che rivendica un’appartenenza. Leone ha fatto esattamente ciò che in Gran Bretagna fecero i Beatles, che presero la musica pop e il blues americano e lo filtrarono con la loro sensibilità, o in Francia Django Reinhardt con il jazz che arrivava da oltreoceano. Ha abbracciato un linguaggio che apparentemente non era il suo e l’ha piegato al proprio gusto, alle proprie necessità di racconto. Il bello è che nessuno di loro, e tanto meno Leone, si può definire un filoamericano. Lui, al contrario, mi parlò della delusione terribile che ebbe quando i primi americani arrivarono a Roma, nel 1944: erano così diversi da Gary Cooper e Cary Grant… In fondo il suo cinema nacque in quel momento e non smise mai di misurare la distanza tra il mito e la realtà».